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L’Italia si è sempre fatta un vanto di avere un alto numero di imprenditori e le Marche eccellono nella classifica delle regioni. Se questo è stato certamente un punto di forza, il lato oscuro è che dietro molte ragioni sociali si nascondono aziende che non riescono a crescere o rimangono in condizioni di marginalità. Questo avviene specie nei settori maturi, tradizionali araldi del "made in Italy". Posso testimoniarlo di persona: negli ultimi vent’anni molte aziende leader del settore dell’arredamento sono rimaste pressoché al palo, mentre un numero consistente è stato travolto dalla crisi, perlopiù per il fallimento della transizione generazionale. Solo alcuni (pochi) "outsider"hanno spiccato il volo, ma senza raggiungere le dimensioni dei concorrenti tedeschi, americani o scandinavi. Nei distretti produttivi italiani la nascita di nuove aziende si è verificata in genere per gemmazione imitativa da quelle esistenti, senza vere innovazioni del modello di business. Si tratta di un limite che ha contribuito al nanismo della struttura produttiva ed è all’origine del vero male dell’economia nazionale: la caduta della produttività ed il conseguente impoverimento del sistema produttivo e sociale del Paese.
Inoltre non riusciamo, come pure altri compagni di crisi del sud Europa, a creare campioni nei settori tecnologicamente avanzati, internet in particolare.
Un recente articolo dell’Economist sottolinea come l’Europa in genere (anche se in dosi differenti) faccia fatica ad accogliere aziende destinate a diventare star, come Google, Facebook o Amazon. Secondo il Global Entrepreneurship Monitor, un non profit che raccoglie e compara dati da vari paesi, l’Italia è ora in forte ritardo anche sul numero di "start-
Nell’analizzare le cause di questa abulia, vengono individuati una serie di fattori:
una generale maggiore avversione al rischio e sfiducia nel proprio paese come generatore di opportunità future. A questo contribuisce senz’altro l’invecchiamento della popolazione e il degrado politico-
leggi fallimentari che marchiano l’insuccesso imprenditoriale (in buona fede) come una colpa morale, protraendo i tempi di riabilitazione e di fatto scoraggiando l’assunzione di rischio. Nel Regno Unito la riabilitazione del fallito avviene in un anno. Da noi forse in 10;
la scarsa disponibilità di "venture capital" per il finanziamento di nuove attività ad alto potenziale e rischio, specie dopo lo scoppio della "bolla dei .com" nel 2000. E’ anche un problema culturale, specie in Italia, dei nostri banchieri. Scarseggia specialmente il "seed capital", i 2-
i vincoli della legislazione previdenziale e del lavoro: gli start-
la legislazione fiscale, che scoraggia o rende onerose forme di incentivo basate sui guadagni in conto capitale (azioni gratis o opzioni sul loro acquisto) particolarmente efficaci in questi casi;
l’assenza pressoché totale di strutture ben organizzate di "incubazione" di imprese innovative, che consentano al neo-
la debolezza, tranne poche eccezioni, delle agenzie di supporto al trasferimento tecnologico e al collegamento tra università ed imprese;
la mancanza di programmi di educazione all’imprenditorialità nelle nostre scuole ed università, al contrario di quanto avviene nel mondo anglosassone e nelle business school dei paesi emergenti;
la burocrazia soffocante per aprire e gestire un’impresa, insopportabile in particolare per chi è assorbito nello sforzo dell’innovazione.
L’analisi suggerisce facilmente le risposte. Ma che di che cosa parla la politica oggi in Italia? Della legge elettorale e dei capoluoghi delle nuove Province.